“Non esistono azioni che non ricevono impulso dai nostri pensieri, soprattutto quando prendono la forma dei nostri sogni”
(Giovanna Cavazzoni)
Vidas è donna, oggi 8 marzo lo vogliamo dire esprimendo riconoscenza a tutte le “nostre” donne (oltre il 70%, impiegate con ruoli a tutti i livelli) che ogni giorno lavorano con grande professionalità e dedizione in difesa della dignità di chi soffre. Un impegno quotidiano sostenuto da altrettante donne, donatrici e volontarie, fedeli compagne di viaggio anche sulla comunità social che si raccoglie attorno all’associazione. A loro infinita riconoscenza.
Quella di dedicarsi con pienezza ad un lavoro difficile e privilegiato allo stesso tempo, è una scelta rinnovata ogni giorno come testimonia il significativo racconto in prima persona di una giornata “qualunque” di Giada Lonati, la direttrice sociosanitaria di Vidas, e di sue due colleghe, della loro efficiente collaborazione della loro forte motivazione e professionalità.
“Devo finire di scrivere un progetto. Per questo ho deciso non fissare appuntamenti venerdì pomeriggio. Sono circa le 16 quando si presenta Sara, una delle più giovani tra le assistenti sociali. È un po’ in imbarazzo: “Scusa Giada ma ho un paziente che è venuto a fare un colloquio accompagnato dal fratello…soffre moltissimo, ogni tanto lancia delle urla di dolore. Ho chiamato su in degenza Simona ma mi ha detto che sta ricoverando un paziente. Alberto mi ha detto di chiedere a te…”
Anton è rumeno, ha poco più di 40 anni, un tumore cerebrale che ha paralizzato il lato sinistro del corpo e del viso, è in carrozzina, in condizioni igieniche non ottimali, inclinato su un fianco. Ha delle fitte lancinanti legate agli esiti di un devastante Herpes Zoster toracico. Quando il dolore si presenta, si contorce e urla con tutto il fiato che ha.”
Mi avvicino a lui. È in una posizione che lo obbliga a rivolgere lo sguardo da sotto in su, con un’espressione disperata, implorante.
Non riesco a immaginare niente di più simile a Cristo in croce.
Provo a fargli qualche domanda. Fatica a rispondere. Mi dice: “Scusa dottoressa io non ho più memoria…l’ho persa”.
Ha passato l’ultima settimana a urlare di dolore, senza chiudere occhio e facendo inutili accessi in Pronto Soccorso. Il medico di medicina generale l’ha mandato direttamente da noi.
Gli somministro immediatamente un analgesico.
E intanto salgo in hospice a cercare Simona, le chiedo se possiamo ricoverarlo. Leggo la stanchezza nei suoi occhi, ma “naturalmente possiamo ricoverarlo”.
Le propongo di dividerci i compiti: io faccio tutta la parte burocratica del ricovero, lei lo visita, insieme impostiamo la terapia.
Il fratello ringrazia. Poi mi dice con dignità: “Se dobbiamo pagare facciamo”. “Qui non paga nessuno” sorrido io. Lui aggiunge: “Lo voglio portare in Romania appena possibile. Voglio che muoia a casa sua con la mia mamma, i nostri fratelli.” Anton ha chinato il capo, ascolta, non fa una piega.
Alle 19 salgo a vedere a che punto è Simona. Il ricovero è finito. Anton con la prima somministrazione di morfina ha trovato un po’ di quiete.
Usciamo entrambe dall’hospice. Non ho finito il progetto e nemmeno farò in tempo a fare la spesa. Tutto da riprogrammare.
Eppure sento leggerezza e gratitudine. Persino l’aria di Milano mi pare che abbia un buon odore.”