In questi giorni si sente forte la vicinanza, il sostegno degli amici, dei donatori, dei volontari di VIDAS. Ed ecco che un volontario di lunga data ci scrive:
Un messaggio informa tutti noi volontari che la Casa di Giovanna Cavazzoni è disponibile ad accogliere i pazienti non afflitti da Coronavirus, ma che soffrono di situazioni complesse e quindi a potenziale rischio contagio. In tal modo contribuendo al drammatico problema di sovraffollamento di tutte le strutture sanitarie della Lombardia.
Mi sono spesso chiesto in questi giorni di pandemia che cosa avrebbe detto, scritto e messo in opera la fondatrice di VIDAS. Esercizio vano e se si vuole retorico. Eppure sono certo che questa decisione è il frutto maturo della scelta compiuta 75 anni fa da Giovanna Cavazzoni.
In questi giorni dalle zone più colpite, da famiglie angosciate, a noi assai vicine, si leva un grido di dolore legittimo per le tante morti dimenticate, per i rituali funebri cancellati.
Il Coronavirus ha scosso alle fondamenta la tendenza tecnocratica della medicina degli ultimi anni, intesa come il luogo dove si va solo per essere guariti.
Giorno dopo giorno le immagini rilanciate ci trasmettono altro, come se questa pandemia avesse, nella sua crudeltà, riportato in essere valori dimenticati.
I medici di ogni ramo, gli infermieri, gli operatori sanitari tutti, sono visti in una diversa luce. C’è di che rallegrarsi, se non fosse per l’inguaribile (questa sì) tendenza a trasformarli in eroi.
I loro volti, stanchi ma determinati, ci dicono o ci fanno sperare che l’emergenza, mai conosciuta prima, abbia portato o possa portare con sé una maggiore umanizzazione delle cure, un progressivo e benefico ritorno del rapporto tra medico e paziente, reso spesso ineludibile dal distacco forzato dai familiari.
A dispetto di sovraffollamento e di contingenti drammatiche carenze, si ha la sensazione che accanto ai letti di chi soffre si sieda un personale medico capace di sentirsi meno investito d’autorità, uomini e donne che tengono idealmente la mano ad altri uomini e donne, in uno spontaneo atto di solidarietà.
Si scopre oggi, in proporzioni e numeri mai raggiunti prima che, per quanto concreta sia la tecnologia, tanto rarefatta e impalpabile è l’arte di stare accanto a chi soffre.
L’identità, l’individuo. Ecco i soggetti che un virus letale può riportare alla luce e con essi i valori di solidarietà, persone che interagiscono non in quanto titolari d’interessi e non in nome della sola funzionalità e dell’efficienza.
Confesso di non sapere quanto resterà, nel tempo del dopo, di questo sentire comune che ci porta ad affacciarci ai balconi a ore certe per cantare, esorcizzando paure e speranze. E nemmeno so se questo Paese saprà far tesoro di questo terribile flagello. Né so se parole, quali sacrifici e altruismo, resteranno cosa viva o giaceranno sepolte nei vecchi vocabolari cartacei.
Taluni esempi suscitano speranza; altri raccontano di una natura matrigna che non conosce né senno né pietà.
Quel che so è che il vero, autentico progresso civile e umano consiste nel “mettere l’altro nel proprio orizzonte”: come ben sanno i membri della comunità di VIDAS non sono parole mie, ma dettate da una signora che oggi guarderebbe con gioia alla decisione di porsi ancor di più al fianco della comunità. Questo e non altro è il vero progresso civile.