La casa è una villetta in un piccolo paese del parco agricolo a sud ovest di Milano, l’architetto l’ha pensata su una piccola collinetta a nascondere il grosso box seminterrato ma forse anche per creare un minimo di altura che possa generare un flusso d’aria nelle ore notturne di questo torrido luglio milanese.
Un muretto bianco circonda un bellissimo prato verde con alberi giovani a creare ombra al vialetto che porta alla veranda, la bicicletta di una bambino è abbandonata sul prato.
Prima di suonare il citofono faccio due respiri profondi: di solito ne faccio uno ma oggi conoscerò il mio primo bambino, il primo bambino che accompagnerò, con i miei colleghi medico, infermiere e psicologa, fino alla fine.
Suono, dalla veranda spunta il volto di una giovane mamma, mi aspetta, fa un cenno con la mano, dopo un attimo il cancello si apre, salgo il dolce pendio, guardo la bicicletta, ha le due ruote sgonfie e una radice si aggroviglia al filo del freno, intorno l’erba è perfettamente rasata.
Il salone è pieno di luce, le grosse finestre sono spalancate, una piacevole brezza muove le tende leggere, lui è lì, ne vedo solo la lanugine bianca della piccola testa che spunta dalla spalliera del divano rivolto oltre il giardino.
La mamma mi accompagna nel campo visivo di S., un bambino di sette anni. Il piccolo corpo è contenuto da cuscini, senza quelli non potrebbe stare seduto. Gli fa delle domande. Lui chiude una volta l’unico occhio aperto: è sì. Lo chiude due volte: è no. All’ultima domanda, dopo avermi guardato a lungo, chiude una volta, è sì.
Muovo lentamente, dolcemente il suo piccolo corpo inerme, cerco di farlo respirare profondamente, ci riesco, mi sento utile anche se non riesco a parlare con lui come fa la mamma che gli parla continuamente di tutto, lui non può parlare ma lei non ha bisogno di sentire le sue parole, i suoi pensieri, li conosce già.
Improvvisamente irrompe nel salone la sorella di qualche anno più grande, ha in mano una grossa borsa, si muove velocemente, a quell’età i bambini non camminano mai, corrono sempre, ciao mi dice, un bacio alla mamma, due al fratellino che quasi cade di lato per lo slancio che ci mette, la piscina l’aspetta.
Prima di andarmene chiedo a S. se vuole che torni, chiude una volta.
Esco dalla porta posteriore accompagnato dal nonno, mi parla a lungo di quel bimbo vivace e pieno di vita che era il suo nipotino, passo accanto all’altalena, il sedile è pieno di polvere, da troppo tempo nessuno ci sale.
Il cancelletto si chiude alle mie spalle, il caldo è terribile, il sedile della motoretta è rovente, parto con una piccola slittata della ruota posteriore, allo stop freno, la ruota anteriore scivola di lato prima di fermarsi, non sono in grado di guidare, giro l’angolo e mi fermo.
Scendo, mi appoggio al muro e mi lascio scivolare a terra fino a sedermi con la testa tra le mani, tutto quello che ero riuscito a trattenere dentro esce impetuosamente, piango, piango senza ritegno per un tempo difficile da dire.
Quando riemergo sento forte il calore del sole addosso, nella piccola stradina non c’è anima viva, qualcosa attira la mia attenzione, giro la testa verso destra, una grossa lucertola mi guarda, con il capo rivolto verso il selciato e la coda protesa verso il cielo, è immobile e vicinissima.
Continuo a guardarla e penso che se fossi una lucertola potrei accettare di vivere in un mondo rovesciato.
Mi asciugo lentamente le lacrime, la lucertola è sempre lì, immobile, poi chiude un occhio, una volta.
Mi rialzo, rimetto il casco e accendo la motoretta, prima di partire faccio un cenno alla lucertola, è il mio saluto e ringraziamento per quel, forse non voluto, messaggio.
Ora so che riuscirò a tornare in quella casa, starò con quel bambino, con quella famiglia, finché sarà necessario.