Ermes ha una vita intensa. Quest’uomo imponente, che porta i capelli in una zazzera sfumata di grigio, non sorride – l’angolo della bocca è, però, sempre sul punto di sollevarsi. Snocciola lentamente le parole e ci sono parti uguali di disincanto e di tenerezza nel suo racconto.
Sono arrivato a Vidas per mia volontà, dieci anni fa – dopo vent’anni di molteplici esperienze professionali.
Ho scelto Vidas perché la possibilità di confrontarsi apertamente era e continua a essere l’elemento fondamentale su cui costruire l’assistenza e il ‘lavorare in équipe’ non è solo un esercizio di scrittura ma un concreto strumento utilizzato da chi ha bisogno del nostro aiuto.
Oggi coordino e organizzo le attività del domicilio. Parte della mia giornata lavorativa è spesa sul fronte dell’organizzazione e in incombenze amministrative: contratti, turni, verifica che gli operatori lavorino nel modo ottimale con le migliori risorse disponibili. E poi ci sono le assistenze.
L’ultima, nella mia zona di competenza, è quella di una ragazza adolescente affetta da una malattia rara che comporta la progressiva perdita di autonomia con difficoltà respiratoria ingravescente.
Abitava con la madre e la sorella. Fino a sei anni circa era una bambina sana poi ha perso gradualmente il controllo del suo corpo. La madre, dopo le prime avvisaglie – la bimba lamentava una stanchezza cronica, era meno attiva – ha intuito che potesse esserci un problema di salute e da quel momento è iniziato un meraviglioso percorso di vita terminato a metà gennaio. Abbiamo accompagnato una famiglia in un viaggio che ha cambiato le loro vite.Sono assolutamente convinto che per fare cure palliative sia fondamentale non giudicare ma accettare, prendere atto di quel che c’è, accogliere. Assicurarmi che quel che posso dare arrivi.
La situazione, in una famiglia dove c’è una bambina così piccola condannata a morte, è – come dirlo? – una merda. Non l’ho ancora chiusa, forse tornerò li a trovare mamma e sorella. Chiudere è ritornare, dopo, ed è difficile. Raramente resto in contatto con le famiglie degli assistiti o loro restano in contatto con me.
Potrebbe accadere, un’assistenza può aprire dei margini di confidenza, entrare in uno spazio di prossimità, intimità persino. Tuttavia per me è raro, eccezionale.Conosco la precarietà e questo lavoro non fa che ricordarmi che stiamo, così, appesi.
L’ho già affrontato, su di me. I miei 52 anni mi hanno dato tanto, soprattutto una meravigliosa famiglia che mi aiuta a realizzarmi attraverso questo lavoro. Qualche preoccupazione, e poco tempo d’avanzo.