Estate? Autunno? Inverno? Difficile a dirsi guardando fuori dalla finestra in questi giorni… Certo è che la pioggia di tarda estate, ancor più che nelle stagioni fredde, aiuta le persone a fermarsi e guardarsi indietro per ricordare e condividere la propria storia. Così ha voluto fare con me Luigi durante un temporale estivo…
L’incontro con le cure palliative risale ormai, per me, al secolo scorso… io, allora giovane psicologo, formato sul campo della tossicodipendenza, avevo ricevuto una proposta di lavoro all’Istituto Nazionale dei Tumori dove serviva uno psicologo con buona padronanza della lingua inglese. Scopo? Importare in Italia la terapia del dolore e le cure palliative domiciliari su modello californiano. In questa cornice è avvenuto il mio incontro con la signora Cavazzoni con cui ho condiviso il sogno di avviare un servizio di assistenza domiciliare di cure palliative. Per il Vidas nascente ho iniziato a occuparmi di selezione e supervisione dei volontari e ho contribuito a formare la prima équipe di cure palliative domiciliari con i volontari, il medico, l’infermiera e, naturalmente, lo psicologo.
Da allora a oggi di acqua sotto i ponti ne è passata molta e la mia attività si è diversificata su più ambiti: dalla selezione e formazione base dei volontari, alla conduzione dei gruppi di supervisione dei volontari, alla gestione dei gruppi Balint con gli operatori, alla realizzazione di conferenze e seminari per stimolare la cittadinanza a riflettere sul significato della morte e del morire, alla partecipazione al comitato scientifico e via via fino all’assistenza diretta ai malati e ai loro familiari.
Così, quasi per un caso fortuito, sono passato dal lavorare con i tossicodipendenti all’esplorare un mondo completamente nuovo e sconosciuto che ben presto si è rivelato avere una enorme carica vitale. Il passaggio in prima linea – ovvero dall’essere formatore dietro le quinte all’occuparmi direttamente di assistenza – è stato suggerito da una volontaria illuminata che ci aveva provocato dicendo che anche gli psicologi dovevano “sporcarsi le mani” e smetterla di lavorare solo dietro le quinte.
Così i miei primi due malati mi hanno rivoluzionato la vita e la professione. Io, cresciuto con il dogma che diceva che i malati non si toccano, durante la mia prima visita alla signora M mi sono ritrovato a prenderla letteralmente in braccio per spostarla dal letto alla sedia comoda. Uscito da quella casa, il gelo emotivo che mi aveva travolto mi ha portato a regalarmi… un pigiama felpato!
Due giorni dopo, il signor P, professore liceale di filosofia, mi ha accolto in cucina vestito in camicia e cravatta e, seduto dall’altro capo del tavolo, ha iniziato a interrogarmi su Kant!!! A lui tutto questo era servito per mantenere intatta, almeno in quella fase iniziale, la sua dignità professionale e quindi di uomo, e a me aveva fatto comprendere che per stare accanto alle persone morenti dovevo imparare a “svestirmi” dei miei panni professionali.
Da allora non ho ancora smesso di entrare nelle case stando in punta di piedi… e ogni incontro rimane unico nei miei ricordi.