Il primo giorno di Michela volge al termine e così il suo racconto così intenso nel quale il tempo gira in modo circolare come il cerchio Vidas, questo girotondo di persone, di cuori, di teste e di mani legati da una “mission” comune.
Nel pubblicare questo racconto a puntate (leggete la prima e la seconda se ancora non l’avete fatto) non abbiamo perso la delicatezza delle parole e neppure il filo dell’emozione. E voi, che siete i nostri giudici più importanti, cosa ne pensate dell’idea? Leggiamo insieme l’ultima parte del racconto e poi lasciateci le vostre opinioni…
Sull’ascensore la giovane nipote di un signore in carrozzina, che mi era sembrata tanto giovane per essere da sola in mezzo a quella sofferenza, con una voce da donna e un atteggiamento da adulta ci ha detto: “Grazie per quello che fate”.
Quelle parole, insieme alle prime, sentite appena arrivata, “la vostra è una missione”, mi sono rimaste dentro come un quadrifoglio in un prato verde. Preziose, uniche, importanti.
Sono uscita, credevo le lacrime sarebbero sgorgate prima che potessi trattenerle. Invece stavo camminando, con il cuore affaticato ma anche ricolmato. Sono arrivata sul binario della metropolitana. 9 minuti e ½. La banchina deserta, una panchina, “9 minuti e mezzo è un buon tempo per piangere”, mi sono detta. Mi sono seduta, ho pianto con il cappello calato sino quasi sugli occhi. Davanti a me due occhi, nocciole infossate scavati nelle guance chiarissime, rivolti verso di me. Una moglie, un bambino di un mese e una settimana. Un’età così vicina alla mia. Le lacrime si sono fermate, mentre il cuore continuava a piangere. Un ragazzo sui diciotto anni si è seduto vicino a me.
Mi sembrava così strana quella sensazione, il cuore si sballottava tra le lacrime, eppure un’ondata di pienezza lo riempiva. Forse l’unica altra volta in cui in vita mia ho sentito questa sensazione indescrivibile è stato leggendo i libri di Elisabeth Kübler Ross. La stessa disperazione mischiata a commozione, fusa con l’amore, intrisa di gratitudine e vita.
Per tutto il tragitto in metropolitana, sul tram, sulle scale mobili, guardavo le persone, le ascoltavo parlare, urlare al telefono, discutere di lavoro, chiacchierare di amicizie e mi sentivo come uscita da un altro tempo e un altro spazio. Forse solo i miei occhi, gli occhi interiori, erano cambiati. Erano tornati a pulsare vivi. Vedevo i colori più nitidi, mi sentivo più piena, come se una linea invisibile si fosse avviluppata in una spirale a avvolgere insieme il cuore, l’anima, la testa, il corpo tutto. Erano un tutt’uno e io mi sentivo così ricolma, così radicata nella terra come una pianta che torna a sentire le sue radici vive e animate dalla linfa.
Il cuore anelava il calore, era come se riscoprisse la fame della vita, della vita vera che è un confine così sottile tra un mondo e l’altro.
Arrivata a casa mi sentivo stanchissima, infreddolita, una lunga doccia calda mi ha coperto il corpo e il cuore, mentre gli occhi inaspettatamente si trovavano davanti quegli occhi incavati, vivi, consapevoli. Improvvisi arrivavano, il dolore risaliva. Insieme alla paura di non dimenticarli.
La stanchezza era viva, vitale, il sonno mi ha portato nella casa in cui sono cresciuta. Nella piccola sala c’era un grandissimo tavolo. Era una festa, tanti tanti amici brindavano, mangiavano, ridevano, mi parlavano. Ero la proprietaria di quella casa piena di vita e ero felice, mi sentivo enormemente fortunata, quella vita era contagiosa e mi invadeva tutto il corpo. Ero in piedi, mi muovevo, volevo stare con tutti, volevo mostrare con tutta me stessa la gratitudine che provavo.
Piena, colorata, viva, accesa, rotonda come una capriola e infinita come un arcobaleno.