Ricordate Charlie Gard? Nel cuore dalla torrida estate che si sta concludendo, la vicenda del bimbo affetto da una rara malformazione è stata al centro di una disputa fra i genitori e l’ospedale londinese dove era ricoverato. Giudicato inguaribile, i genitori avrebbero voluto sottoporlo a una cura sperimentale negli Stati Uniti. Hanno lottato, chiesto, scritto, fino alla resa il 28 luglio, quando Charlie è morto.
Quando ne abbiamo scritto su questo blog, soppesando le ragioni dei medici e quelle di padre e madre, una saggia voce di rimprovero si è levata: “… Certo è facile battere sulla tastiera e lasciare che le emozioni che si provano prendano forma e siano leggibili, ma…”.
Ancor oggi tuttavia, mi chiedo, di fronte a tanto stravolgimento e pur avendo “preso parte” e giudicato corretto l’atteggiamento dei sanitari, come sia possibile non consentire alle emozioni di “prendere forma”.
Ragione e dolore, un binomio difficile da tenere unito, tanto più quando un evento, come nel caso di Charlie, rompe o così a noi pare, il naturale flusso dell’esistenza, come se l’acqua alla fonte d’improvviso sfociasse a mare senza seguire il corso vitale.
A questo pensiamo sovente, osservando la nascente struttura dell’hospice pediatrico, la Casa Sollievo Bimbi, che sorgerà accanto a Casa Vidas.
Come può un edificio, di cui giustamente andiamo orgogliosi, contenere tanto dolore? Ha un senso realizzarlo?
Non abbiamo “la” risposta a un interrogativo tanto più grande di ciascuno di noi, ma abbiamo solo risposte possibili che ci rimandano a risorse impensabili che troviamo nella bisaccia che molte donne e uomini si ritrovano a tracolla dopo una tragedia tanto grande.
Una risposta ci viene da due genitori, Michele e Fabio. L’abbiamo trovata nelle pagine scritte da Giada Lonati, la direttrice sanitaria di Vidas, che ha riassunto esperienza e considerazioni sul suo lavoro nel bellissimo libro edito da Rizzoli L’ultima cosa bella.
…Ci hanno contattato Michele e Fabio. Si sono incontrati per caso, all’interno di un reparto ospedaliero dove hanno perso rispettivamente un bambino e una bambina per una malattia inguaribile. Hanno raccontato le loro storie con una dignità sorprendente. La paura, la sensazione di solitudine, il bisogno di percorsi e luoghi specifici per la cura di bambini che non possono più essere guariti. Entrambi, dopo la morte dei figli, hanno deciso di fondare un’associazione che li ricordasse per favorire la ricerca di terapie atte alla guarigione, ma anche formule di cura per chi non ce l’avrebbe fatta. Uno di loro mi ha detto: ‘ho perso un figlio e sono sopravvissuto: adesso non mi fa più paura niente’. Non so come abbiano fatto, ma entrambi hanno saputo, parafrasando le parole del salmo, mutare il loro dolore in danza, ridando senso all’esistenza. E anche le loro famiglie, cosa tutt’altro che scontata, hanno retto alla tempesta che le ha investite.
Com’è naturale, l’elaborazione del lutto assai di rado percorre vie tanto includenti, “tanto capaci di convivere con il dolore e tanto capaci di vederne l’universalità”, come scrive Giada Lonati. La stessa autrice si sofferma su altre analoghe vicende e racconta sofferenze che non hanno trovato soluzione.
Eppure non smettiamo da inguaribili sognatori, come ci ha allevati Giovanna Cavazzoni, di credere che entro quelle mura qualcosa di buono possa nascere.
“La scelta se integrare o meno la morte – scrive Giada Lonati – e quanto a essa segue, quindi il lutto di chi rimane, all’interno dell’orizzonte del possibile, dell’accettabile, ha implicazioni che non riguardano la morte in senso stretto, ma la vita in tutta la sua estensione”.