Tutti pronti? Sembrava lontano ma eccoci alle soglie di Expo. Al di là delle personali considerazioni, abbiamo pensato che fosse giusto dedicare all’evento alcune riflessioni, che vi proporremo a partire dalla prossima settimana, legate al cibo nella malattia e nel fine vita. Un modo per dar voce anche a coloro che poca voce avranno nel caos mediatico che ci aspetta.
E per iniziare sono felice di proporvi l’introduzione che la Professoressa Silvia Vegetti Finzi (membro del Comitato scientifico Vidas) ha tenuto alla Casa della Cultura, il 22 aprile scorso, in occasione dell’ultimo incontro dal titolo “La prima e l’ultima cena” nell’ambito del Ciclo “Il corpo che nutre”, tre serate dedicate alle donne e al ruolo principale che rivestono nella cura e nell’alimentazione dall’inizio alla fine della vita. Relatrici dell’incontro: Alessandra Kustermann (ginecologa), Lucilla Tedeschi (oncologa) e la nostra Giada Lonati. La parola ora a Silvia Vegetti Finzi.
Il titolo di questo ultimo incontro “La prima e l’ultima cena” si riferisce, com’ è evidente, al celebre dipinto di Leonardo che, con altre opere d’arte, rappresenta Milano in occasione dell’Expo.
Ciò che rende quell’affresco un capolavoro unico e irripetibile è l’aver colto, in una atmosfera apparentemente normale ma che sappiamo eccezionale, le determinazioni del destino che incombono sui commensali, in modo differente per ciascuno, assoluto per Gesù: solo per lui sarà l’ultima cena.
Anche noi conosciamo situazioni dove anche il minimo gesto acquista senso e significato, soprattutto quando condizioni di fragilità, mettendo in crisi la nostra orgogliosa autosufficienza, ci obbligano a dipendere dall’aiuto degli altri. Tuttavia raramente l’importanza di quegli scambi viene riconosciuta, tanto meno quando avvengono in ambiti istituzionali.
Se il cibo viene somministrato con gesti automatici, impersonali, il suo potenziale vitale s’impoverisce. Trattato come una cosa, il ricevente si reifica e la sua mente si spegne.
Come afferma Eugenio Borgna “noi siamo un colloquio” e per sentirci vivi abbiamo bisogno di entrare in relazione con gli altri, di esistere per qualcuno.
Nell’affresco di Leonardo, nonostante il tragico evento che si va preparando, non vi è angoscia perché la vita, iniziata con la nascita, reca in sé una promessa di perennità. In quanto non vi è fine senza inizio, l’ultima cena rinvia alla prima, al rapporto madre-figlio, al corpo femminile che nutre, attraverso il cordone ombelicale prima e il seno poi, il corpo e la mente del bambino. Nell’allattamento (tante volte rappresentato nelle Madonne di Leonardo), ha luogo una relazione che coinvolge tutti i sensi e che trasforma quello che era il cucciolo di un mammifero, in un bambino umano, capace di pensare, di parlare e di creare.
Infine tra il primo e l’ultimo cibo si colloca l’esperienza di essere nutrirti nel corso della malattia. Un’esperienza particolarmente ansiogena in ospedale quando, venendo a mancare i fondamentali parametri di sicurezza e appartenenza, sentiamo spesso di non essere “nessuno per nessuno”. In quei frangenti, i tempi, i modi, gli scambi verbali ed emotivi che intercorrono tra chi porge il cibo e chi lo riceve dovrebbero invece costituire parti integranti della terapia. Ricordo in proposito che la medicina occidentale, inaugurata da Ippocrate e proseguita da Galeno, inizia con prescrizioni essenzialmente dietetiche e che la riflessione filosofica, che raggiunge il punto più alto nei dialoghi di Platone, si svolge soprattutto durante incontri conviviali.
Seguendo il ciclo della vita le oratrici, che si accingono a raccontare esperienze e conoscenze maturate sul campo, nell’assistenza, nella terapia e nell’accudimento di neonati e malati temporanei o terminali, ci offrono un dono prezioso di sapere e di saggezza.
Siamo alle porte di una manifestazione mondiale, minacciata dal clamore mass-mediatico e dal frastuono di migliaia di visitatori, per cui dar voce a chi non ce l’ha, come i neonati e gli ammalati, mi sembra un compito morale oltre che sanitario.