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13.01.2021  |  Cultura

Malattia e morte come rappresentazioni della vita umana nel libro “Diceria dell’untore”

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“Diceria dell’untore” è un romanzo del 1981 di Gesualdo Bufalino, scrittore, poeta e aforista siciliano, in cui si affrontano tematiche complesse come malattia, morte e lutto. Il libro ebbe molto successo, tanto che nello stesso anno l’autore vinse il prestigioso Premio Campiello. Si tratta infatti di un vero e proprio capolavoro, scritto in un linguaggio difficile, che richiama quello della Sicilia barocca dove, tra una chiesa maestosa e lucente e un vicolo malfamato e oscuro, si incrociano continuamente vita e morte, dando origine a manifestazioni collettive di inalterata attrattiva e complessità. Nelle prossime righe cerchiamo di comprendere il senso di questa forte dicotomia e l’attualità del romanzo di Bufalino, che ci riporta alla paura del contagio, alla quarantena causati dal coronavirus.

diceria dell'untore: trama e analisi

La trama e i personaggi del romanzo

La storia, ambientata nell’estate del 1946, parla di un giovane reduce dalla Seconda Guerra mondiale che si ammala di tubercolosi e viene confinato nella Rocca, un sanatorio posto nella Conca d’Oro. Molti sono i personaggi che animano il lazzaretto, ciascuno dei quali rappresenta un diverso modo di concepire la vita e l’attesa della morte.

Il Gran Mago, così è sopranominato il medico della Rocca, simile a un demiurgo, governa con sadica voluttà le vite finite dei suoi pazienti e cede alla morte sogghignando; Angelo considera la memoria lo strumento per rimanere in vita nell’altro, Padre Vittorio impiega gli ultimi momenti della sua esistenza in un serrato colloquio con un Dio che ama e che fatica a riconoscere, Marta soffre l’approssimarsi della morte e prova a seguitare a vivere attraverso la sensualità, ancora non assopita del suo corpo. Infine c’è il protagonista, che aspetta il suo turno con lucida consapevolezza e quando guarirà avvertirà un disagio interiore, causato dalla sensazione di tradimento del patto tra morenti stabilito con i compagni della Rocca. Molteplici visioni della vita e della morte che si scontrano, duellano e cedono di fronte all’inesorabilità dei loro destini.

La rappresentazione della malattia e della morte

Nella Rocca si giunge alla morte attraverso lo strumento della malattia, che però in questo romanzo assurge a strumento che nobilita, quasi un rispettabile sostitutivo della vita comune e mediocre, come dice lo stesso protagonista:

 “la malattia conferisce ai volti un presentimento, una luce che manca sulle guance dei sani, un malato non è meno bello di un santo”.

E quando la morte arriva si compie lo scandalo supremo, lo strappo che tradisce il sentimento di divinità insito nell’uomo. Nella Sicilia colorata, la morte è racchiusa nello strano binomio luce-lutto. A differenza dei paesaggi nebbiosi, dove il morire appare quasi un perdersi nel crepuscolo, nei paesaggi luminosi, dove la luce trionfa, la morte è più sentita, più dolorosa, più intensa. Così, quasi a voler rimarcare tale differenza, la morte di Marta, donna amata del nord, si consuma a causa di una violenta emorragia, nel silenzio interrotto solo da una tosse selvaggia, mentre quello del Gran Mago assume i contorni di una commedia, di una sfida da teatro dei pupi. Nell’agonia, infatti, consegna al protagonista un plico per la bellissima moglie che anni addietro lo aveva abbandonato, contenente bestemmie e insulti.

Cadono tutti prima o dopo, eccetto il nostro eroe che non può far altro che conservare le stimmate interiori della sua malattia e continuare il suo incedere nei giorni. Non una sofferenza inutile, sia perché ogni dolore chiarisce la propria percezione della realtà, sia perché come ripeteva Bufalino:

il dolore dei poeti non è mai inutile”.

In “Diceria dell’Untore” la malattia e la morte sono raffigurate come elementi caratteristici della condizione umana. La malattia sembra quasi essere testimonianza visibile di una differenza interiore. La morte, pur concepita come scandalo che interrompe il cammino, Mistero che affascina ma che insospettisce per via della sua impenetrabile oscurità, offre all’uomo la possibilità di un confronto che lo coinvolge in tutta la sua complessità. È un confronto che non ammette riduzioni, totalitario e dispotico. Eppure, non ammette scorrettezze, è onesto fino all’eccesso e pur mantenendo il riserbo finché l’ultimo respiro non è stato emesso, offre garanzia di risposta.

Con l’ironia dell’intellettuale, Bufalino riconosce, in un aforisma del Malpensante, l’inadeguatezza di ogni opinione umana sull’argomento e l’incapacità di prendere una posizione definitiva in vita:

“È un bluff? Non è un bluff? Fra poco muoio e lo vedo”.

Malattia e morte, in fondo, non sono altro che strumenti necessari per raggiungere l’obiettivo vero, perché, come amava ripetere Miguel de Unamuno:

il fine della vita è di farsi un’anima”.

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