Partire dal dolore altrui che lascia attoniti per rimettere ordine nella propria vita, per ridefinire le priorità, per scoprire che la propria storia può essere accettata, il proprio presente amato, consapevoli della sua transitorietà, che è poi la nostra transitorietà.
Così riassumerei il libro in cui Emanuel Carrère, “Vite che non sono la mia”, prende spunto da due morti altrettanto assurde e sconvolgenti che lo toccano da vicino in un breve arco di mesi, per parlare del dolore e di come al dolore si può provare a dare senso, attraversandolo da protagonisti.
La vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dopo l’altra, e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto. A me le ha risparmiate e prego perché continui a farlo. Mi è capitato di sentir dire che la felicità si apprezza a posteriori. Che pensiamo: non me ne rendevo conto, ma a quel tempo ero felice. Per me non è così. Sono stato molto infelice, e molto cosciente di esserlo; oggi amo quello che è il mio destino, e della sua amabilità non ho un grande merito (…).
L’ho letto d’un fiato, a tratti commossa, spesso rincuorata, sempre rasserenata dalla speranza di vita che comunque vince ogni dolore.