di Nicola Montano Membro del comitato scientifico VIDAS, primario di Medicina interna al Policlinico e ordinario alla Statale di Milano
Perché è importante che i medici comunichino, e lo facciano bene, con i loro pazienti?
Sottolineare l’importanza della relazione in un percorso di cura senz’altro in quelli di accompagnamento, ma non soltanto – significa riportare l’attenzione dei clinici sul beneficio che genera l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e di empatia con il paziente, così come con i suoi familiari. Si tratta di un momento sociale preziosissimo con effetti a livello mentale e, da questo, a quello somatico.
La cura, quando è genuinamente tale, non può che radicarsi in un legame di fiducia. L’empatia con chi diventa il nostro curante si traduce in una riduzione, ad esempio, dello stato infiammatorio. È la conseguenza del potersi affidare – quello che succede, per spiegarlo con un esempio che tutti conosciamo, quando si confida di avere un problema a un amico. Nel raccontare, non ci aspettiamo che l’amico celo risolva- è il fatto stesso di poter condividere, empatizzare, a rappresentare per noi un elemento di sollievo. Non tutti i medici sono naturalmente portati all’empatia ma l’empatia si può imparare, anzi, va allenata.
È stato questo il senso del corso che, lo scorso aprile, abbiamo ospitato nella sede di VIDAS, alla sua quarta edizione, Ethical Life Support plus Communication, organizzato dalla Società Italiana di Medicina Interna (SIMI). La formazione era articolata su due giornate e ha offerto ai partecipanti l’opportunità di riflettere sui temi dell’etica e della comunicazione in medicina.
Rivolto a un numero ristretto di professionisti per favorire l’interazione e la partecipazione attiva, il corso ha alternato lezioni frontali interattive, visione di brevi clip cinematografiche e scenari simulati.
Una giornata è stata dedicata ai dilemmi etici che emergono nella pratica clinica, sempre più frequenti e complessi alla luce dell’evoluzione tecnologica in campo medico e della crescente diversità culturale e sociale della popolazione assistita: argomenti come l’autodeterminazione del paziente, il limite degli interventi terapeutici e le scelte di fine vita sono stati discussi in un’ottica multidiscipli-nare e concreta.
Successivamente, si è posto l’accento sulla comunicazione, aspetto cruciale del lavoro medico. Dopo un’introduzione volta a fornire strumenti comunicativi efficaci, i partecipanti sono stati coinvolti in workshop a piccoli gruppi, incentrati su cinque ambiti specifici: la comunicazione di una cattiva notizia, la gestione della comunicazione in contesti di fine vita, la comunicazione dell’errore, la comunicazione tra colleghi e quella in situazioni di incertezza.
Un gioco semplice come il role playing permette di immedesimarsi nel punto di vista e nello stato d’animo di un paziente o di un familiare. Medico e paziente non sono né possono essere amici, ma la comunicazione tra due persone che non si conoscono, deve avere una sua profondità. Il problema di chi cura è sempre la mancanza di tempo ma sapere chi si ha davanti, chi è, in cosa crede, cosa desidera per sé, significa essere guidati quando ci sono da prendere delle decisioni. Il medico deve conoscere le volontà di un paziente e aver condiviso delle scelte da far valere quando necessario, magari in situazioni emergenziali, nelle quali il paziente potrebbe essere privo di coscienza.
Cambia la cultura della cura e, grazie alla sensibilità e all’impegno di realtà come SIMI e VIDAS, temi finora relegati in secondo piano stanno finalmente ricevendo la giusta attenzione. Un passo importante per una medicina sempre più umana, consapevole e vicina ai bisogni reali di pazienti e curanti.