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20.05.2025  |  Aggiornamenti

Prendersi cura: ieri, oggi…e domani?

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Insieme a Barbara Rizzi, direttrice scientifica di VIDAS, disegniamo una panoramica su come è cambiata e come cambierà la figura del caregiver in Italia. 

“Quando ho cominciato a occuparmi di cure palliative — era il 2000, quindi 25 anni fa — il contesto sociale era molto diverso da quello attuale,” ricorda Barbara Rizzi, medico palliativista e direttrice scientifica di VIDAS. “Allora si iniziavano a intravedere i primi segnali di cambiamento, ma la fotografia della società assomigliava ancora molto a quella degli ultimi cinquant’anni del secolo scorso. Oggi invece vediamo chiaramente i frutti di quel cambiamento.” 

Il profilo del caregiver oggi 

Uno studio dell’Università Bocconi, con il supporto della Fondazione Ravasi, condotto su 107 famiglie milanesi che si prendono cura di persone affette da demenza, ha evidenziato che il caregiver è soprattutto una donna, figlia, di circa 59 anni. Una donna su quattro ha dovuto ridurre o abbandonare l’attività lavorativa, rinunciando in ogni caso a una possibile carriera. 

“Già il titolo dell’incontro di presentazione era indicativo – sottolinea Rizzi – “Fare il caregiver vuol dire perdere circa 1.800 euro di reddito e dedicare almeno otto ore al giorno, cinque giorni su sette, alla cura di un proprio caro, con impatti pesanti sulla salute mentale e fisica”. 

Anche i primi dati della ricerca, condotta da Ipsos per VIDAS su un campione di 1.000 cittadini italiani, confermano questo quadro: 

La cura familiare, quindi, non è più solo una questione di “anziani che assistono anziani”, ma coinvolge persone nel pieno della vita lavorativa. 

Gli impatti negativi segnalati dai caregiver sono pesanti: 

Dal modello rurale al caregiving solitario 

“Dal punto di vista culturale, negli ultimi decenni si è verificato un passaggio importante: siamo passati da una società rurale, dove le famiglie vivevano insieme e si aiutavano reciprocamente, a una società urbana dove le famiglie sono più isolate. Questo rende la cura ancora più gravosa e solitaria”.  

“Inoltre – continua Rizzi – il caregiving è stato storicamente assegnato alle donne, che spesso si sono trovate a sacrificare la propria carriera e il proprio tempo libero per occuparsi della famiglia. Oggi questo modello mostra tutti i suoi limiti: il ruolo della donna è cambiato, le famiglie sono più piccole, la popolazione invecchia, e il tempo dedicato alla cura deve essere “rubato” ad altre attività. Eppure…” 

I dati ISTAT 2023 ci dicono che in Italia ci sono 8,5 milioni di caregiver, con una media di sette ore al giorno dedicate alla cura. “Tra questi, ci sono anche 169.000 giovani tra i 15 e i 16 anni: un dato impressionante”. 

Deprivazione secondaria: un fenomeno invisibile  

“Secondo i dati che abbiamo visto, e tornando al discorso sul cambiamento del ruolo della donna, va sottolineato un fenomeno importante: quello che i sociologi definiscono deprivazione secondaria,” aggiunge Rizzi. “È un aspetto tutt’altro che marginale. In pratica, molte donne sono costrette a rinunciare ai propri bisogni — tempo libero, carriera, lavoro full time — per far fronte alle necessità di cura degli altri.”  

“È una scelta spesso spinta dal desiderio autentico di aiutare, ma che pone una domanda fondamentale: a quale costo personale? Oggi è la società stessa a richiedere e perpetuare questo sacrificio.” 

Giovani caregiver: un fenomeno in crescita 

Un altro grande tema riguarda l’evoluzione della società: stiamo vivendo l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei nuclei familiari ridotti (quando non addirittura monocomponenti) e il cambiamento del concetto stesso di famiglia, spesso più fragile o conflittuale. A questo si somma l’integrazione culturale con popolazioni diverse.  
In questo contesto emerge una nuova figura: quella del caregiver giovane

“Un caregiver giovane ha caratteristiche e bisogni molto diversi rispetto a un caregiver adulto,” specifica Rizzi. “Pensiamo a ragazzi di 15 o 16 anni, ancora in fase di crescita e formazione personale, chiamati a sostenere carichi di cura molto gravosi. Che impatto ha tutto questo sulla loro vita e, di conseguenza, sulla società? È una domanda urgente su cui dobbiamo riflettere”. 

I dati dicono che in Europa, circa il 7% dei caregiver è rappresentato da giovani. Una ricerca preliminare, realizzata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano insieme alla Statale di Padova, ha mostrato che il 3% dei ragazzi di terza media (circa 14-15 anni) ha già un’esperienza significativa di caregiving.  

“Questo fenomeno sta emergendo in modo evidente. Certo, anche nel passato i ragazzi aiutavano nei contesti rurali, ma allora il contesto sociale era diverso: la cura era condivisa all’interno di comunità più ampie. Oggi, invece, la responsabilità ricade spesso interamente su spalle giovanissime. Il fenomeno dei giovani caregiver è emergente e preoccupante.”  

Molti ragazzi si ritrovano a prendersi cura di un familiare per mancanza di alternative: “Perché accade questo? Principalmente per mancanza di alternative. A causa di risorse economiche insufficienti, che impediscono alle famiglie di assumere figure di supporto professionale. E servizi pubblici inadeguati o difficilmente accessibili, e spesso poco conosciuti. Questo carico precoce rischia di compromettere il loro sviluppo personale, scolastico e sociale,” dice Rizzi allarmata. 

“Anche quando si riesce a entrare in contatto con una rete di supporto, le risposte offerte non sempre sono adeguate ai bisogni reali. Questo rappresenta una grande sfida anche per noi di VIDAS.” 

Cosa possiamo fare?  

La risposta sembrerebbe, prima di tutto, riconoscere formalmente il ruolo del caregiver e offrire un sostegno reale.  

“Durante un recente convegno, abbiamo ascoltato una testimonianza molto significativa di una caregiver – ricorda Rizzi – che ci ha lasciato un messaggio forte: Abbiamo bisogno di operatori che non ci giudichino.” Ha raccontato come il caregiving possa travolgere la vita di una persona da un giorno all’altro, oppure insinuarsi lentamente attraverso una lunga malattia. Ma in entrambi i casi, chi si prende cura non nasce “preparato” e spesso fatica a riconoscere i segnali del cambiamento nella persona assistita”. 

“Non possiamo, quindi, permetterci di giudicare chi chiede aiuto magari troppo tardi o chi esprime dubbi e incertezze. Anzi, dobbiamo essere capaci di accogliere, ascoltare e sostenere chi affronta quotidianamente queste difficoltà, anche nei gesti più concreti della vita di tutti i giorni”. 

Day Hospice Adulti

Le compassionate communities: riscoprire il senso di comunità 

In secondo luogo, serve una rete integrata che aiuti chi si prende cura: formazione, supporto psicologico, accesso facilitato ai servizi, possibilità di affidarsi a personale formato.  

Alcuni Paesi del Nord Europa – ma anche in Italia ci sono esperienze interessanti in questo senso – stanno sperimentando modelli di “compassionate communities“, reti di aiuto formale e informale che cercano di ricostruire quel senso di comunità che una volta esisteva naturalmente nei paesi o nei cortili di città: allora la nascita, la malattia e la morte si vivevano in modo molto diverso da oggi, più naturale e comunitario. 

“Le compassionate communities moderne sono un tentativo di recuperare quello spirito di vicinanza. Oggi siamo diventati tanti singoli che vivono isolati, anche se in realtà esistono ancora molte realtà associative e iniziative locali — dalle biblioteche di quartiere ai corsi organizzati nelle parrocchie — che cercano di tenere vive le relazioni. 

L’idea delle compassionate communities è proprio questa”, spiega Rizzi: “riconnettere la rete di iniziative e creare una rete di ascolto e sostegno, non solo nella cura sanitaria ma anche nella vita quotidiana, nel tempo libero, nella cultura. Ad esempio, mettere in contatto chi sa cucire con chi ha bisogno di una cerniera da sistemare: anche dalle piccole cose può nascere qualcosa di grande”. 

Nei Paesi nordici questo modello ha iniziato a svilupparsi circa dieci anni fa, e ora comincia a diffondersi anche in Italia, con alcune esperienze pilota in Lombardia e in Emilia-Romagna. “In sostanza, si tratta di formalizzare quel supporto informale che un tempo esisteva naturalmente nelle comunità.” 

“Non esiste un modello perfetto, ma esiste una direzione: quella di costruire reti di cura, dentro e fuori la famiglia, che sostengano chi si prende cura, per il bene di tutta la comunità.” 

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