In Italia sono quasi 1,2 milioni le persone che convivono con una demenza. Ma ancora troppo spesso, loro e chi se ne prende cura, restano soli.
È quello che emerge dalla ricerca Il peso della cura, promossa da VIDAS in collaborazione con IPSOS per accendere i riflettori su un bisogno urgente: l’accesso alle cure palliative anche per chi ha una patologia cronica.
«Complessivamente, dal 2019 al 2024 i nostri pazienti colpiti da patologie non oncologiche, tra cui la demenza, sono aumentati in modo significativo, passando dall’11% al 26%» afferma Antonio Benedetti, direttore generale di VIDAS.
«Oggi, un paziente su quattro convive con una malattia cronica. Questa evoluzione impone un ripensamento dell’assistenza: servono cure palliative capaci di accompagnare percorsi lunghi e complessi, per rispondere con competenza e umanità ai bisogni di pazienti e caregiver».
Nel 2024, VIDAS ha assistito oltre 100 persone con demenza, l’85% a domicilio. «Numeri che evidenziano un bisogno concreto di cure palliative anche per chi convive con questa patologia» sottolinea Barbara Rizzi, medico palliativista e direttrice scientifica di VIDAS.
Chi vive accanto a una persona con demenza lo sa: non è solo una malattia della memoria, ma una condizione che trasforma profondamente le relazioni, le abitudini, il tempo. I caregiver – per lo più familiari – si ritrovano spesso a gestire da soli situazioni difficili, a volte per anni.
La ricerca mostra come l’impegno richiesto ai caregiver sia enorme: il 43% di chi ha un familiare con demenza se ne prende cura direttamente, spesso da solo e senza adeguati aiuti economici. Il 45% assiste il proprio caro anche 24 ore su 24 nelle fasi più avanzate della malattia. Un carico che ha effetti importanti sulla salute mentale (68%), sulla vita sociale (72%) e sull’equilibrio lavoro-famiglia (75%).
Solo il 35% dei caregiver ha potuto contare sulle cure palliative. Eppure, più della metà di chi non ne ha beneficiato è convinto che sarebbero state utili, sia per il malato che per sé stesso.
Secondo i professionisti coinvolti, le cure palliative andrebbero attivate in ogni fase della malattia. Eppure, solo poco più della metà dei medici lo ha fatto nell’ultimo anno. Il motivo? Ostacoli come la mancanza di informazione, difficoltà di accesso ai servizi e una percezione ancora legata alla fase terminale.
«Rispetto all’ambito neurologico, la relazione tra demenza e cure palliative non è ancora così immediata, ad esempio in medicina interna, dove avviene la maggior parte dei ricoveri. Esiste un gap culturale che verrà pian piano colmato» spiega Nicola Montano, ordinario di Medicina Interna all’Università Statale e Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
Anche il rapporto medico-famiglia è spesso sbilanciato: anche dopo la diagnosi nel 47% dei casi il medico si rivolge principalmente al caregiver, lasciando sullo sfondo la persona malata. Un approccio che può aumentare il senso di solitudine e la responsabilità di chi assiste, rendendo più difficile anche la condivisione delle decisioni.
A questo proposito, la demenza, con il suo decorso lungo e progressivo, richiederebbe un’attenta pianificazione delle cure: un processo condiviso tra persona malata, familiari e équipe sanitaria per definire insieme scelte di cura coerenti con i desideri, i valori e la qualità di vita della persona.
Eppure, questo strumento è ancora poco diffuso. Solo al 21% degli assistiti è stata proposta una Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC).
I medici tendono a non proporre la PCC perché hanno difficoltà nell’affrontare il tema dell’evoluzione della malattia del fine vita e per l’elevato livello di compromissione cognitiva dei pazienti. D’altra parte, solo il 19% dei pazienti ha scritto le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) prima di ammalarsi.
Si tratta di un’occasione persa, perché sottoscrivere le DAT e lasciare così chiare indicazioni scritte su come voler essere trattati in caso di incapacità, migliorerebbe enormemente l’assistenza e la qualità della vita delle persone con demenza.