“Ti posso portare un caffè?” chiede con dolcezza Francesco a sua moglie Roberta. Alto, distinto e ancora innamorato.
Avevo già avuto questa sensazione parlando al telefono con lui il giorno prima, per fissare gli ultimi dettagli del servizio fotografico, quando si era premurato di dirmi che Roberta “a parer mio è sempre una bellissima donna”. Sensazione confermata dal racconto della loro vita insieme.
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“Ci siamo frequentati per tre anni prima di sposarci. Succedeva 51 anni fa” sorride Francesco, divertito dal mio sbigottimento davanti a un matrimonio così duraturo. “I matrimoni non sono mai come li mostra la réclame, ci sono momenti di tensione, ci sono diverbi, ma se si è d’accordo sui punti fondamentali, sulle scelte della vita, ecco che il matrimonio regge.”
Dei cinque decenni passati con Roberta dice: “Abbiamo lavorato tanto. Sono arrivati tre figli e devo dire che li ha cresciuti prevalentemente lei, pur continuando a lavorare. Quindi è chiaro che in un assetto di questo tipo non si è mai perfettamente tranquilli e momenti di difficoltà possono venire fuori. Io a causa del mio lavoro di ricerca mi muovevo costantemente – ricorda con una stanchezza ancora percepibile nella sua voce – ero spesso all’estero e lei ha badato a tenere in piedi l’organizzazione familiare, quindi questa è una cosa che le va molto riconosciuta”.
“È stato faticoso”, gli fa eco Roberta. “Per tutti quanti: per me, per lui, per i figli, perché organizzare una vita di 5 persone – due delle quali lavorano a tempo pieno e tre sono da crescere – è un’impresa. Però è stato esaltante, alla fine, e soprattutto adesso ne sto godendo di più perché lui c’è – sempre – e anche i figli. Questo è di grande consolazione”.
Dopo più di 50 anni sono qui, ancora insieme, seduti al tavolino da caffè nel grande salone di casa loro, “felicemente, ma con un’eccezione” dice Francesco.
L’eccezione si chiama MSA (Multi System Atrophy), un’atrofia cerebrale che coinvolge molti sistemi dell’organismo e limita fortemente e in modo progressivo tutte le attività funzionali, salvo l’attività cognitiva che rimane integra.
Quattro anni fa, a Roberta viene fatta una diagnosi di MSA. Sarebbe stato difficile per chiunque sostenere questa malattia, a maggior ragione per un medico: “Conoscevo già la patologia e quel che non sapevo sono andata a studiarlo, per vedere, per capire” dice Roberta. Purtroppo però, quattro anni fa come oggi, la risposta è sempre la stessa: dall’MSA non si può guarire.
“Quindi in quest’ultimo periodo ho deciso molto serenamente di cambiare lavoro e considerare il mio nuovo lavoro dedicarmi totalmente all’assistenza di mia moglie. Questo l’ho fatto con estrema convinzione, è una decisione sulla quale non ritorno” dice perentorio Francesco.
“È una decisione che ha implicato un cambiamento totale di vita, questo però fa sì che per me sia un momento unico, sotto il profilo affettivo forse il più intenso della mia vita, perché non siamo mai stati così uniti, così vicini uno all’altro e questa è una cosa curiosa, se ci pensi, perché è una condizione che ha molti momenti di drammaticità”.
Assistere un malato di MSA è effettivamente un lavoro a tempo pieno. Uno degli elementi che caratterizzano maggiormente la giornata è la distribuzione dei farmaci. Si comincia alle 7 della mattina e dopo diverse somministrazioni a orari fissi si finisce con la terapia farmacologica verso le 23. “Quindi già ricordarsi di dare tutti questi farmaci non è poco e alle volte si sbaglia,” ammette Francesco. “Il mio concetto è quello di assistere una persona che non è più autosufficiente in tutte le sue necessità. Quindi tutto ciò di cui lei ha bisogno viene fornito o da me o – quando non riesco solo io – da una badante.”
Poi ci sono i momenti in cui Roberta e altri pazienti come lei possono avere crisi respiratorie e crisi ipertensive. Una delle caratteristiche della MSA, infatti, è la disautonomia del sistema nervoso.
Altro elemento rilevante è quello dei pasti, perché tra i vari disagi che questa malattia comporta, c’è anche un disturbo della deglutizione. “Quindi bisogna pensare anche a questo aspetto e fare determinate scelte – spiega Francesco – senza contare la fortissima limitazione di movimento. Per fortuna lei le braccia le muove ancora e quindi, pur con difficoltà, al pasto mangia da sola. Però bisogna esserle vicini, dare un aiuto se serve, quando serve eccetera.”
La deglutizione è anche uno degli aspetti su cui interviene VIDAS, grazie a Stefano Zecchillo, logopedista al domicilio. Stefano si occupa di mantenere l’autonomia il più lungo possibile nel deglutire, nel mangiare e nel comunicare, garantendo la miglior qualità di vita possibile per il tempo più lungo possibile. “Sicuramente senza Stefano non avrei fatto tante cose”, parola di Roberta.
Oltre al logopedista, VIDAS ha messo a disposizione diverse figure professionali dell’équipe multidisciplinare per assisterla al meglio.
“Non solo assistono mia moglie tecnicamente – dice Francesco – ma anche in maniera compassionevole. Non solo danno un contributo tecnico ma dimostrano concretamente vicinanza. Nelle malattie croniche c’è bisogno di questa vicinanza e VIDAS assolve molto bene a questo compito. Si vede che è un personale formato anche dal punto di vista psicologico.”
Roberta è seguita da un infermiere, da un fisioterapista, che l’aiuta a mantenere un minimo di mobilità e a gestire il dolore muscolare, e da un medico, che esegue due accessi alla settimana. “A questo punto è diventata un’amica di famiglia – ci tiene a precisare Francesco – perché si trattiene con noi molto a lungo e uno dei problemi di un paziente che è immobilizzato è quello di come passare il tempo, quindi avere la compagnia di una persona ha la sua valenza terapeutica. Non è solo una questione di che pastiglia prescrivere e prendere ma è anche passare una o due ore parlando d’altro. A questo proposito è entrata recentemente un’assistente spirituale, che se devo essere sincero non ho capito benissimo di cosa si occupa, ma a mia moglie piace molto conversare con lei e giudica la sua presenza positiva, quindi ben venga!”
“Sono seguita da un sacco di figure intelligenti e generose. Non mi lasciano un giorno da sola, c’è sempre qualcuno con me, e questo è un valore aggiunto per un malato grave, anche se non in fin di vita, perché non si sente abbandonato – conferma Roberta – può confidare sul fatto che, di qualunque cosa avrà bisogno, si arriverà al dunque.”
“Conoscevo VIDAS da tempo, posso dire tranquillamente che da tantissimi anni nella mia dichiarazione dei redditi devolvo il 5×1000 a VIDAS. Colgo l’occasione per invitare chi vuole a fare altrettanto perché è sicuramente un’associazione meritevole di essere sostenuta perché fa del bene a tanta gente. ..E non si sa mai che prima o poi potresti finire ad averne bisogno,” scherza Francesco.
“Poi quando Roberta ha ricevuto la diagnosi, un nostro caro amico [il professor Bruno Andreoni] che si è occupato molto e ancora si sta occupando di malati terminali ci ha fatto da ponte con VIDAS perché lui ha ritenuto che potesse fare un lavoro utile. Prima pensavo che VIDAS assistesse il malato solo nei suoi ultimi momenti, con la terapia palliativa nel momento del fine vita. Ho appreso invece che VIDAS prende anche in carico pazienti con malattie croniche, con molto anticipo rispetto alla fase terminale, e per noi ha fatto una grande differenza.”