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18.08.2023  |  Aggiornamenti

Come raccontare la malattia, il dolore, la morte

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Le attività formative di VIDAS includono anche i corsi per giornalisti, pubblicisti e professionisti sui temi della malattia e della morte attraverso i media.

Offrire formazione per chi comu­nica, sulla carta stampata e in generale per i media, è stimo­lante. L’opportunità di accredi­tare i corsi progettati all’interno di VIDAS per i colleghi significa costruire un prezioso trait d’union tra palliativisti e giornalisti e ren­dere possibile l’incontro sul ter­reno dei valori, dell’etica, della deontologia professionale.

Comunicare il dolore

Raccontare il dolore e la malattia, non indietreggiare di fronte alla morte è in effetti darsi lo spazio per una riflessione critica, sospen­dere il giudizio e, al tempo stesso, mettere a nudo i pregiudizi, spesso sottesi al linguaggio mediatico e responsabili di una retorica poco ponderata ma suscettibile di modi­ficare la percezione collettiva di fenomeni e avvenimenti.

Quest’anno abbiamo tenuto un corso di formazione sulla rappresentazione della malat­tia negli organi di informazione, dal titolo Come raccontare il dolore – Dobbiamo essere tutti guerrieri? di cui vi riportiamo i momenti principali.

Guerrieri di terracotta. Come raccontare la malattia il dolore la morte

La parola a Luciano Clerico

Già caporedattore Ansa e corrispondente dagli Stati Uniti

Qual è il limite tra dovere di informazione e rispetto della persona? E come trattare e comu­nicare il dolore, quale l’approccio più corretto? Per evitare equivoci preciso subito: non lo so o, meglio, so che non c’è una formula valida sempre. È la sensibilità a imporre di affron­tare ogni caso a sé, sorretti da tre parole-guida: decoro, pudore, rispetto. Se la malattia inguaribile fa spettacolo e la retorica del guerriero può essere ridondante, gratuita, fuorviante è il rispetto della volontà di chi soffre a distinguere tra buona e cattiva informazione.

Ho scelto quattro sportivi – la loro malattia è ancora più difficile da accettare, suona dissonante, fuori luogo – che incarnano altrettanti modelli di comunicazione.

La parola a Carmine Di Martino

Ordinario di filosofia morale all’Università degli Studi di Milano

«Dimmi il tuo rapporto col dolore e ti dirò chi sei».

Vorrei partire da questa afferma­zione di Ernst Jünger per avviare una riflessione sui nostri concetti di dolore e malattia, come individui e come società.

Nella rappresentazione collettiva assistiamo oggi a due fenomeni opposti. Da un lato, tanatofobia ovvero rimozione, occultamento della morte, oppure spettacolarizzazione che allontana la morte, di nuovo, dalla ‘normalità’, dalla città. Non appartiene alla sfera del familiare, del quotidiano, ma si proietta sul piano dell’eroico, in una logica prestazionale, del saperci fare e del potere di fare. Dolore e sofferenza mettono il malato nella condizione di avere ragione della malattia, sconfiggerla. L’ideale di una tale esistenza priva di dolore diventa quello di dare la morte alla morte.

Si dimentica che quel che rende insensato il dolore è la solitu­dine, che l’isolamento amplifica il dolore. L’alternativa alla logica prestazionale non è la rassegna­zione, la rinuncia alla vita, ma la cura come ‘cura dell’altro’.

Il dolore che annuncia la morte e la anticipa richiama la nostra fragilità e dipendenza dall’altro. È una ferita che apre all’altro, che permette all’altro di entrare, gli dà di nuovo ospitalità. L’alternativa a una imma­gine bellica e prestazionale non è dunque l’acquiescenza rassegnata, ma la condivisione del dolore, la cura. Ovvero: la percezione della vita come dono e la voglia di vivere perché c’è l’altro, per amore dell’altro, nei due sensi del genitivo. Una vita senza dolore è nient’altro che una vita senza amore.

La parola a Sergio Harari

Professore associato di Medicina Interna all’Università degli studi di Milano

Apprezzo l’occasione di discutere qui quanto e come possa essere fuor­viante la visione un po’ semplicistica di una guerra da vincere (e quante volte si sono usate analogie belliche durante la pandemia!). Così avremmo una battaglia che, se persa, lascia sul campo un solo sconfitto, il malato.

Ma la condivisione del dolore lo rende più accettabile?

La spettacolarizzazione della sof­ferenza di grandi personaggi non sembra contribuire molto a una maggior coscienza di quella che è una dimensione interiore, le per­sone famose sono lontane da noi e vissute come estranee, un po’ come ai tempi dell’antica Grecia gli dei dell’Olimpo avevano poco a che spar­tire con la vita dei comuni mortali.

Il web ci aiuta a comunicare meglio con i malati? Probabilmente, per molti aspetti della malattia sì, ma non per quelli più intimi e personali, laddove la resilienza può aiutare i pazienti a affrontare i momenti dif­ficili, e i medici a fare un lavoro che li pone quotidianamente vicini alla sofferenza e al dolore.

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