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08.05.2020  |  Operatori

Non ho potuto nemmeno salutarlo…

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Vivere la perdita di una persona cara nel tempo del Coronavirus  è un’esperienza doppiamente dolorosa. Non solo l’altro non c’è più, ma non è stato nemmeno possibile stargli a fianco, accompagnarlo, esprimere e condividere il dolore attraverso i riti di commiato che la nostra cultura conosce, sia religiosi che laici.

A scrivere è Sonia, una delle nostre psicologhe al servizio di chi in questi giorni si rivolge a VIDAS perchè ha bisogno di raccontare la propria esperienza di lutto. Sabato 16 maggio alle 17,30 sarà con noi in diretta Facebook per condividere la sua esperienza, ancora più significativa in questi giorni così difficili.

Se dovessi riassumere i sentimenti che le persone esprimono quando chiamano la linea telefonica dedicata da VIDAS alle persone in lutto, dovrei fare in realtà un lungo elenco che include tutto ciò che viene normalmente vissuto quando si perde una persona cara.  Ma in questo momento della nostra storia, al dolore si aggiungono sbigottimento, senso di ingiustizia, profonda solitudine, dubbi laceranti su ciò che è accaduto veramente mentre il proprio caro era ricoverato, consapevolezza dello stato di sofferenza che la persona deve aver provato nell’essersi sentito abbandonato dalle persone amate.

“E’ morto da solo” è la prima frase che tutti dicono.

Alcuni al telefono ti raccontano semplicemente quanto accaduto e hanno solo bisogno di poterlo condividere con qualcuno che possa reggere lo strazio, che possa ascoltare tutto, senza che loro abbiano la preoccupazione di farti del male come potrebbe accadere se ne parlassero con le persone di famiglia.

“Racconto a lei che è una sconosciuta, perché ai miei figli non posso dire proprio tutto, altrimenti si preoccupano per me e stanno ancora peggio”  e così anche il solo poter raccontare diventa un sollievo.

Altri chiedono consigli di fronte a situazioni particolari come quelle in cui a morire non sono i genitori anziani ma i loro figli, come Anna che mi chiede: “Dottoressa, non so come dire a mia mamma, che ha novant’anni, che suo figlio di 60 è morto e io ho già le sue ceneri in casa mia. Mia mamma mi chiede come sta suo figlio e io le racconto che le cose non vanno bene per abituarla piano piano, ma la verità è che mio fratello non c’è più, è già morto. Come posso dirlo a mia madre se non posso nemmeno abbracciarla mentre glielo dico?

Altri ancora ti chiedono se tutto ciò che sta accadendo è vero o se è solo un incubo.

“Io non riesco a crederci. Ho perso in venti giorni mio marito che aveva 61 anni, due zie ottantenni, una cugina di 48 anni e una di 45, tutta gente della mia famiglia….non può essere vero

Tutti, ma proprio tutti, chiudono la telefonata con un grazie sentito, dicendoti che il lavoro che stiamo facendo è importante, che per fortuna ci sono persone come noi che si rendono disponibili a dare una mano.

Ma io, alla sera, quando chiudo la linea telefonica, mi sento una privilegiata perché sono viva, in salute, protetta dentro la mia piccola ma confortevole casa e rispondere al telefono per accogliere la sofferenza degli altri mi sembra davvero il minimo. I miei colleghi medici, infermieri, operatori socio sanitari, quelli sì, devono essere ringraziati. E così tutti gli esseri umani che stanno lavorando perché io possa stare in casa, quelli sì, devono essere ringraziati.

Io ho perfino il privilegio di poter riflettere sulla natura umana e rendermi conto di quanto dolore gli esseri umani siano in grado di affrontare. Perché la perdita e il lutto sono un’esperienza che gli esseri umani conoscono fin da quando nascono e le telefonate che ricevo sono anche una testimonianza della forza che ciascuno di noi possiede e che aumenta ogni volta che possiamo condividere con qualcuno il nostro dolore.

Forse è proprio questo ciò che manca in questo periodo, ciò che viene tolto veramente: la possibilità di stare vicini, di piangere la nostra perdita nell’abbraccio di qualcuno che ci ama. Già normalmente, quando siamo in lutto, le parole non sono il mezzo migliore perché a volte possono essere banali, lasciare il tempo che trovano, e diventare così solo un tenero ma inefficace modo di esprimere la propria presenza. La vicinanza fisica invece, quando è  calda, amorevole, quella invece funziona sempre, soprattutto quando la persona che non c’è più se n’è andata in modo traumatico e funziona con tutti, perché un abbraccio è tale anche quando chi lo scambia è uno sconosciuto.

Ora questo non è possibile. E nel pensarci, la sera, mi accorgo di quanto questo mi manca. Perché solitamente, quando incontro le persone in lutto nel mio lavoro in Vidas, è quasi naturale salutarci con il corpo. Una calda stretta di mano, un abbraccio reciprocamente pieno di gratitudine, una carezza quando sai che l’altro ha bisogno dei suoi confini.

Non posso dire che mi piaccia il telefono, ma anche questa è una lezione: le condizioni non le puoi scegliere tu, nemmeno quando ti impegni per il bene, perciò devi accettare anche tu la distanza.  Certo, è un po’ frustrante.

Ma poi mi basta la telefonata di Nilda, la madre novantenne di Anna, che intanto ho conosciuto telefonicamente perché lei stessa ha chiesto alla figlia di parlare con me privatamente e mi ha raccontato cosa pensa davvero di quanto sta accadendo al figlio in ospedale. Quando finalmente Anna ha trovato il coraggio di dire alla mamma che il suo figlio prediletto è morto, Nilda mi telefona e racconta: “Ho tenuto spento il telefono perché oggi è stata una brutta giornata. Questa è la prima telefonata e la faccio a te, che considero un’amica. Mio figlio è morto e anche la mia vita è finita con lui, ma so che Dio ha ascoltato le mie preghiere. Perché dopo un mese di ospedale, senza vederlo, sapendo che soffriva, preferivo che il Signore se lo prendesse. A me non manca tanto e dunque presto lo raggiungerò anche se so che devo impegnarmi per la splendida figlia che mi resta e per i miei nipoti. Grazie per essere stata con me.”

Grazie a te Nilda, grazie a tutti coloro che condividono la loro sofferenza. Grazie anche a  tutti noi, e siamo in tanti, che ci siamo stiamo rendendo utili come possiamo.

E’ su questo che possiamo confidare: in tutti noi c’è qualche seme di bene, si tratta solo di dargli acqua.

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