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05.08.2019  |  Operatori

Storia di Giuseppe che non voleva morire attaccato ad una macchina

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Il privilegio di un medico è instaurare un rapporto di fiducia autentico con il paziente. Ancora più significativo è avere l’onore e la responsabilità di raccogliere la sua volontà riguardo a come essere curato nell’ultimo tratto della sua vita e questo è possibile grazie all’introduzione delle DAT con la legge 219 del 2017.

Quella di Maura Degl’Innocenti, medico Vidas, e del suo incontro con Giuseppe e la sua famiglia è la testimonianza di quanto la sua scelta di specializzarsi in cure palliative le abbia permesso di mettere a disposizione la sua professionalità con amore e umanità a sostegno concreto di chi si trova di fronte alla malattia grave e improvvisa di un proprio caro, aiutando a rispettare la dignità del paziente e delle proprie scelte.

Ho raccolto per questo la sua testimonianza, pubblicata su Il Bullone nei mesi scorsi, e la condivido oggi con tutti i lettori del nostro Blog.

Quando ho conosciuto le cure palliative ho capito che quella era la medicina in cui credevo, una medicina che si prende cura della persona malata dal punto di vista biologico ma anche e soprattutto biografico”. In qualità di medico palliativista sono state diverse le occasioni in cui Maura si è trovata a raccogliere le volontà di un paziente, anche prima della legge 219 del 2017 sulle DAT.

Le scelte di fine vita e la pianificazione condivisa delle cure sono da sempre parte integrante del lavoro degli operatori delle cure palliative, capisaldi nella relazione tra medico e paziente. “Si tratta di un percorso che richiede tempo, sottolinea Maura, perché significa darsi uno spazio di condivisione in cui non ci sono risposte certe o verità uniche, in cui il medico si toglie il camice e si mette a fianco del paziente senza paternalismo”.  Così è stato con Giuseppe, un uomo di sessantanove anni la cui vita è stata sconvolta da una forma di Sclerosi Laterale Amiotrofica particolarmente aggressiva e veloce. Maura racconta, è passato più di un anno ma i suoi occhi ancora luccicano al ricordo di quell’uomo che ha combattuto fino alla fine. “Giuseppe era un uomo tutto di un pezzo, un uomo d’altri tempi molto legato ai valori tradizionali della famiglia. Ricordo perfettamente quando entrai in casa, lui seduto sulla sedia e alle sue spalle la moglie e le due figlie che avevano deciso di nascondere la verità. Questo è uno degli aspetti più delicati del nostro lavoro, la relazione tra paziente e famiglia. Spesso per affetto e protezione si decide di non dire nulla della malattia. Un silenzio che però nel tempo, con il peggioramento delle condizioni, non si può più reggere ed è qui che comincia quel percorso di cui parlavo prima”. Giuseppe, come molti altri, la verità l’ha capita quando da un giorno all’altro non è più riuscito a girare le pagine dei suoi amati libri. “È scoppiato a piangere come un bambino inconsolabile ed è in quel momento che mi ha chiesto di dirgli della malattia, del tempo che aveva davanti e del percorso di cura che voleva ma anche quello che non voleva: la tracheotomia e rimanere attaccato a una macchina come un robot”. “Con la psicologa dell’équipe, perché le cure palliative si fanno solo in équipe, abbiamo assistito Giuseppe rimodulando le cure in base al decorso della malattia ma rispettando le sue scelte fino alla fine”. Giuseppe è morto a casa sua, così come aveva scritto. Con lui sua moglie, le sue figlie e i suoi nipoti.

Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento difendono il diritto del malato di essere curato con dignità, secondo la propria volontà. E’ importante proseguire il lavoro di sensibilizzazione e far conoscere gli elementi chiave della legge, per questo ti invitiamo a firmare la nostra petizione per l’istituzione il 14 dicembre di una #GiornatadelBiotestamento. GRAZIE

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