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09.06.2014  |  Operatori

Vidas era scritto nel libro del mio destino

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Eccoci di nuovo a tu per tu con un nostro operatore che ha accettato di raccontarsi. Si tratta di Alessandra, una vecchia conoscenza del nostro blog, che oggi ci regala un pezzo della sua vita. Leggiamolo insieme…

VIDAS era nei miei pensieri, stava scritto nel libro del mio destino. Un giorno all’ospedale di Sondalo accanto alla mamma malata, aprii un foglietto e lessi “Villa Litta – .. Maggio 2008 h 09-13.00 Il ruolo dell’infermiere oggi”. Il giorno successivo mi alzai all’alba, auto + treno raggiunsi villa Litta. La relazione del direttore socioanitario di VIDAS fu molto bella, timidamente mi presentai e chiesi di frequentare la struttura: lei acconsentì. Mi sentii felice. Ripresi treno + auto e in pace ritornai dalla mamma a Sondalo.

Libro del destinoPerché con i malati che vivono l’ultimo atto della vita? È una lunghissima storia.Da piccola mia nonna Carolina mi portava con lei a fare visita a tutti i parenti e amici malatissimi, preparava per loro una bella torta, perché “ci si deve nutrire”, e si andava. Io dovevo stare seduta, zitta e ascoltare. Da medico poi ho curato le persone malatissime in rianimazione, l’80% si salvava e a volte raccontava il suo viaggio, il 20% moriva, in ospedale e medicalizzato, ma angoscia e dolore venivano controllati, sempre. Adesso curo ancora persone malatissime ma nelle loro case. È il mio ruolo nella vita, è scritto nel mio libro, lo considero una fortuna che mi è stata data alla nascita.

Tanti sono i malati e le assistenze che hanno lasciato dentro di me una breccia che il tempo non cancella. Sono le morti improvvise, inattese, quando manca l’ultimo atto della vita, l’incompiuto.
Sono state tante quelle vissute senza la mano e il profumo della torta della nonna Carolina.
Da piccola, Marcella, una amichetta, cerea, stesa sul suo letto bianco con un vestitino candido. Alle elementari la mia prima maestra, la signorina Ingeborg Bormann, occhi verdi, lentiggini, capelli rossi con un gran treccione: in estate, a tavola, sento il papà dirmi “è morta la signorina Bormann”. Ricordo la sensazione avuta di soffocamento e di essere diventata cieca per un attimo. Da adolescente Anna, stesa sul letto con l’abito da sposa, morta dopo il parto, e il pianto della neonata. Da giovane medico Giulio, il suo rantolare “mo.. ro, mo..ro” prima della sedazione e della morte mi ha colpita come una spada. E i neonati delle morti in culla, portati in braccio dai genitori.
Poi, prima del naloxone, i ragazzi in overdose; dopo, i ragazzi del sabato sera e i loro genitori.
Da sorella, mio fratello Giorgio, con il quale l’ultimo atto della vita lo avevo vissuto ma non lo avevo capito e allora l’ultimo sguardo ha lasciato una breccia che il tempo non cancella. Dopo tutto io stessa, a volte, mi stupisco essere ancora viva.

Ogni morte d’uomo mi diminuisce perché io partecipo all’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: Essa suona per te.
– John Donne (1573-1651)

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