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29.10.2012  |  Cultura

Sulle regole applicate al lavoro in hospice

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Lavorare in hospice è un’esperienza bellissima anche se, a tratti, un po’ faticosa. Ho imparato sulla mia pelle che l’equilibrio è un esercizio costante e continuo, nella vita degli individui e dei gruppi.

Partiamo da un fatto concreto avvenuto all’interno dell’équipe: un paziente ha fatto una richiesta “strana” anche rispetto alla flessibilità che caratterizza la convivenza in hospice. E l’équipe si è divisa. Qualcuno sostiene che le regole vadano superate sempre, tanto più in una struttura come un hospice. Qualcun altro sembra aggrapparsi alle regole come ad elementi imprescindibili, forte della certezza che senza regole tutto vada a rotoli. Nel mezzo c’è chi cerca una posizione di mediazione, che alla fine verrà trovata.

La mattina dopo questa riunione d’èquipe, Nadia, un’infermiera, mi porge il libro che Gherardo Colombo ha pubblicato nel 2008, “Sulle regole” appunto. Precisa che si tratta di un prestito molto prezioso che contiene una dedica autografa dell’autore. Questa cosa un po’ mi intimidisce. Se dovessi stare alle mie di regole, glielo restituirei, perché l’idea di custodire un oggetto prezioso altrui mi crea un po’ di ansia. Ma stavolta trasgredisco.

“Esiste un modo di intendere la comunità che non si basa sulle gerarchie, ma sull’idea che l’umanità si promuova attraverso un percorso armonico in cui la collaborazione di ciascuno, secondo le proprie possibilità, contribuisce all’emancipazione dei singoli e al progredire della società nel suo insieme.” Non avrei trovato parole migliori per dire come, fermi restando i ruoli dei singoli componenti in quella società in miniatura che è l’hospice, sia richiesto a ciascuno di mettersi in gioco in prima persona, partecipando alla definizione attiva delle regole giuste e necessarie, nella capacità di metterle in discussione in maniera costruttiva e di declinarle sui bisogni di pazienti e familiari.

Certo, le regole sono utili a tanti livelli, purché non diventino un alibi. “La tendenza a deresponsabilizzarsi, come quella a delegare in bianco, spingono a porsi interrogativi sul rapporto tra la persona e la libertà. A molti la libertà fa paura, perché pone di fronte alla necessità di scegliere. […] Le scelte sono complesse, difficili, implicano valutazioni che coinvolgono il bene e il male (non sempre esattamente individuabili), obbligano a tenere conto del contesto (ciò che è positivo in una circostanza è dannoso in un’altra), non consentono di crearsi paradigmi di riferimento validi in qualsiasi situazione. La scelta è generatrice di dubbio, di ansia e di insicurezza, per questo esiste una tendenza a fuggire dalla libertà per rifugiarsi nell’arbitrio (che per definizione non implica responsabilità) o nella sottomissione (che trasferisce la responsabilità su altri).” Le scelte che ci riguardano si applicano alla fine della vita, quando ad andarsene è una persona con tutta la parte di mondo che la circonda. Inutile dire che il peso di queste scelte è grande e va condiviso.

Giungere a una scelta consapevole infine èun percorso infinito, nel quale, prima e più della meta, conta il modo di essere sulla strada, la coerenza di ogni gesto e di ogni parola rispetto al loro risultato finale. È il percorso, non il traguardo, a riempire la persona del proprio valore e della propria dignità. Tutti noi siamo sul percorso, dipende da ognuno di noi dove questo ci porterà”. Una conclusione che sento di poter fare mia, nella sua capacità di restituire proporzione alla responsabilità di ciascuno rispetto alla complessità di una storia (e di tante storie) cui siamo chiamati a partecipare con tutti noi stessi, imperfezioni e limiti compresi.

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