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05.06.2023  |  Pazienti e famiglie

Tutta la fine davanti. Max, VIDAS e il segreto della seconda rampa

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Tutta la fine davanti: la rampa di scale in Casa VIDAS

di Giovanni Covini

Scrivo questo pezzo accanto a te, mentre ti veglio.

Forse spero di salvare qualcosa per il mondo che non ti ha conosciuto, o per quello che ti ha soltanto sfiorato.

Mentre cerco le parole sento il gemito sottile che ogni tanto produci respirando. È il gemito di un bambino e sembra anche la tua voce più vera. Non te l’avevo mai sentita ma la conoscevo da sempre. È anche la mia. Quel bambino è sempre stato là e man mano che gli strati dell’adulto si sfrangiano, torna a farsi sentire e a brillare.

Anche le frasi che hai dovuto dire in questo tempo sono le frasi di un bambino. Cacca, pipì, mal di pancia. “Mi vergogno del dolore” – mi dici – mentre ti contraddico con l’immagine di un eroe nel pieno della battaglia. L’umiliazione è in chi la sente, ma sentirla forse è inevitabile ed è a volte la necessaria strada verso l’umiltà.

Raggiungere la tua camera è un percorso. Quando entri in VIDAS, a lato della reception, quasi nascosta, c’è una rampa di 10 gradini alti meno di una spanna. Curvano lievemente a destra, fino a un pianerottolo da cui parte la rampa successiva: altri 14 gradini che curvano lievemente a sinistra. Sali e ruoti il punto di vista quasi senza rendertene conto.

Questa, per me, è VIDAS.

In questi due mesi, salire quasi ogni giorno quelle due rampe è diventato un mantra. Nella prima ti senti davanti alla fine di tutto, poi ti giri e nella seconda hai tutta la fine davanti. È una curva che ti porta dalla notizia all’esperienza, da una cosa che sai a una cosa che vivi.

Nella tua corsia, Max, ogni camera è intitolata a un fiore. La tua si chiama Iris, come il diaframma della macchina fotografica. Iris per me è sempre stata la quantità di luce, come quella del sole che un giorno è filtrata tra le veneziane e ha fatto della boccetta dell’ossigeno una lanterna che ribolliva di perle. Era un pomeriggio della metà di aprile e tu riuscivi ancora a voltarti a guardarla. 

Ti sei voltato molte volte a guardare, nella vita. La bellezza delle donne, soprattutto, che ti ha sempre disarmato. Per te una bella ragazza era un incanto. Durante le vacanze, a 18 anni, ti eri innamorato di una conosciuta al mare e avevi passato l’estate a scriverle una lettera, che non hai mai consegnato.

Vorrei raccontarti di un’estate.
Di mare notturno e notti marine
E silenziose coperte di sabbia e di sale
E scogli – rocce immobili –
E donne silenziose sulla riva (…)

Dove si troverà oggi quella donna? Chi e come l’avrà amata alla fine?

La bellezza che trovavi nelle donne e nei paesaggi naturali, la trovavi anche nella musica – a un certo punto della tua vita eri arrivato a suonare discretamente i preludi di Bach alla chitarra – nella Bossa Nova e nella poesia. E questo è stato poi il terreno della nostra amicizia: la disperata ricerca della bellezza. Perché la bellezza è la vita che dice sì dentro di noi. Il momento in cui ti innamori di qualcuno o di qualcosa è il primo momento in cui senti dentro di te che valeva la pena di nascere. Ma è anche il momento in cui capisci che da solo non ti basti più.

“Senti questa, Max” – ti dico per portarti via da un pensiero che ti ferisce e che non dici – “te la passo come me l’hanno venduta. Non chiedermi altro perché non lo so.

1972, primi di giugno. Penisola del Sinai. Egitto, Siria e Giordania preparano la guerra lampo contro Israele. Scavano dei tunnel per sbucare all’improvviso. Il 5 giugno scatenano l’inferno e il 10 la Guerra dei sei giorni è finita. Ma Israele è più forte dell’effetto sorpresa.

E ora… rimangono i tunnel.

Che qualcuno va a visitare chissà perché. E scopre che negli scavi fatti in fretta e furia erano emersi dei reperti archeologici. Su tutti, una scritta risalente a una qualche era antichissima:
Tutto già scritto. Tutto già detto. Fine delle parole.”

Rimani in silenzio un momento. “È la storia più bella che tu mi abbia mai raccontato”.

“Non so se sia vera.”
“Ma l’hanno raccontata.”
“Sì. Ma non so se sia vera.”
“L’hanno raccontata.”
“Sì. L’hanno raccontata.”

Hai ragione. Le parole fanno esistere le cose. È stato così fin dall’inizio. Dalle prime incomprensibili del greco e del latino a quelle vertiginose della poesia, fino a quelle più intime e dolorose che ci siamo scambiati e che resteranno fra noi. Hanno costruito la casa della nostra amicizia non con la serialità dei mattoni ma con l’unicità delle pietre. Sono state per noi come cartelli stradali: ci indicavano la strada e ci dicevano che la meta era più in là, perché le parole ti dicono soprattutto dove non sei.

Sempre alla ragazza di quell’estate scrivevi:

(…) Vorrei parlarti di chi non mi ha mai amato, né odiato,
né mai rimpianto.
L’incoscienza di un’estate che non conosce
Estasi né catarsi. (…)

Amami, se non puoi amarmi odiami, se non puoi odiarmi rimpiangimi. Ma non fare di me un’assenza. E se l’assenza è la mia condizione, permettimi di raccontarla a te.

Il corridoio in cui si trova la tua stanza ha il soffitto basso e le luci laterali incassate a parete: sembra di camminare in un sottomarino, sei nel mondo e sei fuori dal mondo. Il tempo qua dentro è fisico. Il tuo, quello dei medici, quello degli infermieri, quello degli OSS, quello di chi ti viene a trovare. Il tempo è bussare, aprire la porta, salutare. Ascoltare, prendere, spostare. Uscire, attendere, rientrare. Parlare, tacere, scoppiare a piangere. Un minuto è un minuto, ma non si sa quanto durerà. Quando OSS, infermieri e medici hanno fatto irruzione nella tua stanza a ridere con noi è stato circa un minuto, ma ha illuminato tutta la giornata.

C’è qualcosa cui tutti sembrano aver abdicato, qui, forse perché non salvano vite. Esiste sempre una verità clinica – perché anche l’incertezza sul decorso a suo modo lo è – ma nessuno si arroga il potere di imporla o tacerla al paziente. Sei stato tu a delimitare la verità condivisa. Alcune parole hai scelto di non pronunciarle e anche in questo pezzo rispetterò la tua decisione. Hai guidato tu, fino all’ultimo.

VIDAS per me è una squadra di frontalieri. Entrano in camera e vedono cosa manca: mettono una risata, tolgono un catetere, spostano un carrello, mettono una parola. Ma in realtà preparano partenze, camminano sul bilico tra la concretezza brutale degli ultimi oggetti necessari e lo stacco siderale verso il mistero. Preparano il cargo per un viaggio che non conoscono nemmeno loro e a cui non si può dire di no.

Ma sono anche un manipolo di clandestini. Chi vive sulla frontiera sa che le luci del centro sono illusorie. Frequenta il limite, le zone d’ombra, quel dolore che oggi è l’unico tabù vero che abbiamo in questa parte del mondo. Il clandestino in periferia ci vive. Puoi pure lasciare nel cassetto titoli, soldi e reputazione. Non servono. Non perché non ci sia più niente da fare, ma perché finalmente puoi toglierteli di dosso e vivere. Una complicità criminale rispetto alla logica del mondo: sei qui per prepararti a partire… e finalmente puoi vivere. Ti ricordi Dara Marks? Il personaggio a un certo punto della storia si gode il proprio dolore, perché scopre che si sente vivo.

È il segreto della seconda rampa: tutta la fine davanti. Una chiave che fa dell’ultimo respiro non la fine della vita ma il compimento di un percorso. In questo stupefacente mercato nero della verità che non si può dire, tutti sanno di essere parte dello stesso viaggio dei pazienti. Tutti si ricordano che quel viaggio è e sarà anche per loro. Un punto di vista che mette in crisi l’idea di “vincere contro la malattia” – perché ti porta via dall’idea che si debba vincere, dall’idea che la malattia sia contro di te, dall’idea che il dolore sia male di per sé. Inaccettabile sguardo per i codici narrativi di oggi.

Una mattina arriva un messaggio di tua figlia: papà è diventato afasico.
Fine delle parole, mi dico. Non gli servono più
– penso, forse per reggere l’urto. Ero preparato alla tua partenza ma non a questo nuovo livello del dolore. Tu senza le parole. Tu oltre quei cartelli stradali, tu oltre i fonemi, le sillabe, i versi, oltre la millenaria storia dei tentativi di dire ciò che non si può dire. Oltre la poesia, forse finalmente arrivato al punto del silenzio, a quel luogo che le parole indicavano.

Qualcosa hai detto ancora, poi, ma poco, pochissimo e confuso. E poi le parole si sono spente e hanno lasciato spazio ai gemiti.

Oggi, i gemiti sono diventati rantoli. È domenica sera, tra poco gioca il tuo Milan, a poche centinaia di metri da qui. Parliamo tranquillamente, la tua ex moglie e io. E a un certo punto ti fermi. Semplicemente, così. Tutto è compiuto. E dopo centomila ore, non c’è un minuto di più, come canta Ivano Fossati. Valentina dice “È andato”. Veniamo verso di te. Lei ti augura buon viaggio, io ti dico grazie, Max. Grazie della bellezza.

Torno a casa, sono quasi le dieci. Passo davanti a San Siro e abbasso tutti i finestrini. Forse riesco a farti sentire i tuoi tifosi. Il Milan vince 3 a 1 e Ibrahimovic smette di giocare per sempre.

Non so dove tu sia, Max. So che avevi una laurea in lettere e ti mancava un esame per quella in teologia. E che con due lauree hai scelto di tenere la bancarella di frutta e verdura ereditata da tuo padre per tutta la vita. Non so nemmeno se e dove ci rivedremo. Forse là, dove le parole in cui hai creduto sono cominciate: nella Galilea di tutte le cose, perché nella mia fine è il mio principio.

Tutto già scritto, Max. Tutto già detto.

E la storia più bella che mi hai raccontato tu, adesso, è questo silenzio che rimane.

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