“Mi porti a casa” è la testimonianza coraggiosa di una figlia caregiver, Laura Baldassini, che racconta in maniera cruda e reale cosa significa accudire una mamma malata di Alzheimer. Ci vuole forza d’animo a narrare questa malattia degenerativa, riflessa in una madre che si allontana giorno dopo giorno, per colpa di un morbo che ha toccato inesorabilmente ciò che di più prezioso appartiene a un essere umano, il suo cervello, alterandone pensieri, sensazioni, emozioni.
“Sto per morire”: queste poche parole, pronunciate dalla mamma e riportate nel libro dalla scrittrice, rappresentano una sorta di testamento, come se nel suo non sapere più chi è, ci fosse ancora spazio per tutti quei pensieri, quelle paure e quelle domande che accompagnano l’esistenza di ogni essere umano. Possiamo immaginare che siano state pronunciate con un tono e secondo modalità che appartenevano a quella mamma quand’era una donna intelligente, vigorosa, attiva, capace di tirar su tre figlie da sola dopo la morte precoce del marito.
Nel suo difficile racconto, Laura si augura che nel percorso degenerativo di questa malattia crudele ci sia stato un istante di tregua che abbia lasciato spazio a un residuo di vita vera, come un lampo di luce nel buio.
Laura Baldassini è donna forte, da quasi trent’anni lavora con la disabilità, è donna di fede militante nella chiesa valdese. Eppure, in questo libro drammatico esprime tutte le sue paure, tutti i dubbi che mettono in discussione le certezze di una vita: “Perché succede tutto questo”? Chiede aiuto ed è così che la sua testimonianza si arricchisce dei contributi dell’amica Gabriella Bottini e della pastora Dorothee Mack.
Il diario di Laura, che ha condiviso gli anni di assistenza alla madre con le due sorelle, ci racconta dell’inesorabile caduta in modalità di comportamento che ben conosce chi ha vissuto la stessa esperienza con una persona malata di Alzheimer: i primi segnali subdoli, la ripetizione di frasi alle quali non dare peso, poi le crisi, le allucinazioni, la frase pronunciata dalla mamma “E tu chi sei?”. I colloqui surreali al telefono che le fanno scrivere:
“È strano e triste sapere che ci sei, che sei lì, che mi rispondi, che ti vengo a trovare e allo stesso tempo non averti più. È crudele doverti perdere un pezzetto alla volta”.
Si va avanti, giorno dopo giorno, mentre la mamma che è stata per una vita il suo punto di riferimento, le chiede chi siano mai “quelle due signore riflesse nello specchio dell’’anticamera”. Si sorride, talvolta, mentre spesso prevale la voglia che tutto finisca (“Sono stanca, stanca di dovermi occupare di te”) o la rabbia che esplode quando la mamma le chiede: “Chi sei, bella sconosciuta?”. Così, d’impulso, le viene da pensare che in tutta questa faccenda ci sia un grande assente, Dio.
Lasciamo a chi vuol leggere questa accorata testimonianza le note bibliche che accompagnano i grandi quesiti di Laura Baldassini. Noi, più laicamente, ma con grande ammirazione nei suoi confronti, riportiamo quanto l’autrice scrive in chiusura:
“Attraverso questa malattia io sono cresciuta, ho imparato ad affrontare cose che fino a qualche anno fa non entravano neppure nel mio campo visivo, ad accettare che non esisto più per mia madre, a riprendere la mia identità strappata e rimetterla insieme più forte di prima perché esisto grazie a lei e lei ora ha bisogno di me per vivere in modo dignitoso, accudita e amata nella sua fragilità”.