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07.01.2013  |  Cultura

50 e 50, un cancer movie in cui non c’è spazio per il pietismo

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Adam ha 27 anni, un amico molto invadente di nome Kyle, una fidanzata sentimentalmente poco coinvolta, una madre ansiosa che deve prendersi cura del padre malato di Alzhaimer e un’esistenza decisamente poco elettrizzante e aperta al cambiamento. In seguito ad alcuni disturbi alla schiena gli viene diagnosticata una rara forma di cancro alla colonna vertebrale dal quale le possibilità di sopravvivenza sono 50 e 50 e la sua vita è costretta ad un cambio di rotta. Jonathan Levine – in parte grazie all’ottima interpretazione del protagonista Joseph Gordon-Levitt – realizza un cancer movie in cui non c’è spazio per il pietismo mentre al contrario grande spazio ha il politicamente scorretto.

Una dramedy (o commedia drammatica) ispirata alla vita dello sceneggiatore Will Reiser in cui le situazioni “lacrimevoli” lasciano spazio all’ironia, quando non addirittura alla canzonatura. Il ruolo buffonesco della pellicola è affidato al Kyle di Seth Rogen, l’amico volgare e apparentemente poco compassionevole di Adam, che si rivela poi invece uno dei pochi a stargli veramente vicino durante tutta la malattia. Lo stesso non si può dire della fidanzata di Adam, che si sente in dovere di restare accanto al ragazzo ma che non vuole mischiare “quel mondo” (l’ospedale, la chemioterapia, il cancro) con il “suo” mondo. Un ruolo importante hanno anche Alan e Mitch, i “compagni di chemio” con cui si trova presto a condividere esperienze e da cui impara a ridere della comune sventura.

Il film fotografa anche, pur in modo estremo, due differenti modi di affrontare la pratica medica. Da una parte abbiamo la maniera incarnata dall’oncologo, professionale ma privo di empatia, che registra al microfono la diagnosi anziché parlarne col paziente, usa paroloni altisonanti che Adam è costretto ad andare a ricercare in rete per informarsi, definisce il suo un caso “molto affascinante” e fa persino fatica a guardarlo negli occhi quando gli parla. Dall’altra parte quella della terapista Katherine che, sebbene inesperta e incapace di evitare di farsi coinvolgere personalmente, cerca fin da subito di creare un filo diretto con il paziente cercando non solo di “andare verso l’altro”, ma anche di portare lui nel suo mondo (vedi la definizione di empatia).

Mi pare significativa una battuta provocatoria del protagonista:

Non so perché la gente abbia paura di dire una frase tipo: “Ehi! Stai morendo”.

Voi che ne pensate?

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